Che cos’è il “Mal d’Italia” e perché nessuno ne parla

A tutti, infatti, capita di imbattersi, per strada o nelle corsie di un supermercato, in una giovane donna o una donna adulta, che, con impegno, sostiene a braccetto un anziano o guida la sua carrozzina. Ma, quando le osserviamo, ci chiediamo mai: chi sono queste donne?

di Bea­tri­ce Sciarrillo 

Rice­via­mo e pub­bli­chia­mo que­sta ana­li­si di Bea­tri­ce Sciar­ril­lo su un tema trop­po spes­so dimen­ti­ca­to e tra­scu­ra­to: il cosid­det­to “mal d’Italia”.

“Una sto­ria pri­ma di rac­con­tar­la biso­gna saper­la ascoltare”.

Le paro­le dell’umanità sono il seme da cui nasco­no le sto­rie che leg­gia­mo. È que­sto il prin­ci­pio che sta alla base del­la scrit­tu­ra dei libri di Mar­co Bal­za­no, che, con le sue sto­rie – spes­so tri­sti nel­la loro veri­di­ci­tà – si fa can­to­re di un’epica moder­na, in cui l’uomo, depo­ste le armi dell’eroe, cer­ca di soprav­vi­ve­re come può.   I roman­zi di Mar­co Bal­za­no han­no costi­tui­to, per me, una cate­che­si di pre­zio­si inse­gna­men­ti. Se, dopo aver let­to Resto qui – roman­zo pub­bli­ca­to nel 2018 e clas­si­fi­ca­to­si secon­do al Pre­mio Stre­ga – ho pre­so cono­scen­za del­le vicen­de sto­ri­che – ai più sco­no­sciu­te – del pae­se altoa­te­si­no di Curon, che, nel 1950, nono­stan­te le corag­gio­se pro­te­ste degli abi­tan­ti, fu com­ple­ta­men­te som­mer­so da un lago arti­fi­cia­le per la pro­du­zio­ne di ener­gia elet­tri­ca, la let­tu­ra di Quan­do tor­ne­rò – pub­bli­ca­to nel 2021 sem­pre dal­la casa edi­tri­ce Einau­di – mi ha aper­to gli occhi di fron­te a ciò che, ogni gior­no, vedia­mo nel nostro pae­se, ma di cui fin­gia­mo di non accor­ger­ci. A tut­ti, infat­ti, capi­ta di imbat­ter­si, per stra­da o nel­le cor­sie di un super­mer­ca­to, in una gio­va­ne don­na o una don­na adul­ta, che, con impe­gno, sostie­ne a brac­cet­to un anzia­no o gui­da la sua car­roz­zi­na. Una cop­pia ormai fre­quen­te nel­le stra­de del­la cit­tà così come nei più pic­co­li pae­si dell’Italia. Ma, quan­do osser­via­mo que­ste don­ne o, nel momen­to stes­so in cui affi­dia­mo i nostri cari alle cure di que­ste per­so­ne, ci chie­dia­mo mai: chi sono que­ste don­ne? Qua­le sto­ria han­no alle spal­le? E – soprat­tut­to – dove sono le loro fami­glie? Dove sono i loro mari­ti e i loro figli? Spes­so, i loro figli sono i nostri coe­ta­nei, i nostri com­pa­gni di clas­se, che, con fati­ca, han­no dovu­to accet­ta­re che le cure e le atten­zio­ni del­le loro madri fos­se­ro indi­riz­za­te ver­so altre per­so­ne a loro sco­no­sciu­te. Ma, nel­la mag­gior par­te dei casi, quei figli non sono in Ita­lia. Sono sta­ti, infat­ti, abban­do­na­ti dal­le loro madri che, spin­te dal­la neces­si­tà di tro­va­re un lavo­ro per soste­ne­re le spe­se del­la fami­glia, sono sta­te costret­te a emi­gra­re in un altro pae­se euro­peo. Per anni, madri e figli non si vedo­no – se non attra­ver­so lo scher­mo di uno smart­pho­ne, acqui­sta­to gra­zie ai sol­di gua­da­gna­ti in Ita­lia e invia­ti alla famiglia. 

È que­sta la sto­ria di Danie­la, una don­na di 47 anni, che, sen­za più spe­ran­ze di tro­va­re un impie­go lavo­ra­ti­vo nel suo pae­se e non poten­do con­ti­nua­re a tira­re avan­ti con gli asse­gni di disoc­cu­pa­zio­ne, lascia la cit­tà di Răde­ni, e, sen­za dire nul­la ai figli e al mari­to, sale su un auto­bus diret­to ver­so il ter­ri­to­rio ita­lia­no. Giun­ta a Mila­no, tro­va lavo­ro come badan­te di un uomo anzia­no, Gio­van­ni, a cui, col tem­po e l’abitudine, si affe­zio­na, ma di cui non sa gesti­re gli atti­mi di demen­za seni­le, che lo por­ta­no a esse­re – improv­vi­sa­men­te – vio­len­to e mane­sco. Difat­ti, la respon­sa­bi­li­tà di gesti­re malat­tie dif­fi­ci­li e impre­ve­di­bi­li – come l’Al­z­hei­mer o il Par­kin­son – vie­ne spes­so addos­sa­ta – dai fami­lia­ri e dai medi­ci stes­si – a que­ste don­ne, di cui non solo – dun­que – vie­ne sfrut­ta­to il lavo­ro del­le brac­cia – brac­cia per sor­reg­ge­re, per imboc­ca­re, per lava­re – ma vie­ne anche logo­ra­ta la sta­bi­li­tà psi­co­fi­si­ca.   Inol­tre, que­ste don­ne, emi­gra­te in Ita­lia con il fine di con­sen­ti­re alla loro fami­glia di vive­re un’esistenza più digni­to­sa, han­no dif­fi­col­tà a muta­re l’assetto eco­no­mi­co del loro nucleo fami­lia­re, a cau­sa del mise­ro gua­da­gno che rice­vo­no men­sil­men­te e a cau­sa del­la tota­le man­can­za di tute­le. Infat­ti, que­ste lavo­ra­tri­ci, da un gior­no all’altro, sen­za nes­sun pre­av­vi­so, pos­so­no tro­var­si licen­zia­te e sfrat­ta­te di casa.   Disa­gio socio-eco­no­mi­co e disa­gio psi­co­fi­si­co van­no a brac­cet­to. Gli psi­chia­tri, infat­ti, chia­ma­no “Mal d’Italia” o “Sin­dro­me d’Italia” il bor­nout, che afflig­ge le assi­sten­ti dome­sti­che dell’Est Euro­pa, che, dopo anni di reclu­sio­ne nel­la casa di anzia­ni mala­ti, sono col­pi­te da una for­te cri­si depres­si­va lega­ta alla lon­ta­nan­za da casa – dal­le pro­prie usan­ze e tra­di­zio­ni – e allo stress psi­co­fi­si­co a cui sono sot­to­po­ste – spes­so 24 ore su 24, 7 gior­ni su 7. All’Istituto psi­chia­tri­co Soco­la di Iași, ogni anno ven­go­no rico­ve­ra­te più di 200 badan­ti: mol­te di que­ste han­no cer­ca­to di toglier­si la vita una vol­ta ritor­na­te nel loro pae­se.   Secon­do i dati pub­bli­ca­ti dall’Osservatorio Nazio­na­le DOMINA sul Lavo­ro Dome­sti­co (2020), tra colo­ro che svol­go­no il com­pi­to di badan­ti in Ita­lia, la com­po­nen­te dell’Est Euro­pa è for­te­men­te mag­gio­ri­ta­ria, rap­pre­sen­tan­do il 73,6% del tota­le. Le prin­ci­pa­li con­cen­tra­zio­ni di don­ne rume­ne, mol­da­ve, ucrai­ne si han­no – ovvia­men­te – nel­le gran­di cit­tà, come Roma, Mila­no, Tori­no, che, spes­so, offro­no mag­gio­ri occa­sio­ni di lavo­ro, ma anche, nei pae­si­ni del­la Cam­pa­nia e del Vene­to. In par­ti­co­la­re, nel Vene­to, si regi­stra una for­te pre­sen­za di don­ne rume­ne, data la vici­nan­za del­la regio­ne vene­ta al loro ter­ri­to­rio nata­le.   Ma, se ci sono madri che emi­gra­no, ci sono – neces­sa­ria­men­te – anche figli che ven­go­no abban­do­na­ti. In Roma­nia, sono mol­te le scuo­le e le comu­ni­tà per i bam­bi­ni e i ragaz­zi left behind: gli “orfa­ni bian­chi” – nar­ra­ti nei roman­zi di Ingrid Coman –, che, pri­va­ti dell’affetto mater­no, ven­go­no affi­da­ti, nei casi più for­tu­na­ti, ai non­ni e agli zii, in altri, inve­ce, ai vici­ni di casa. Secon­do sti­me UNICEF Alter­na­ti­ve Socia­le (AAS), in Roma­nia gli orfa­ni bian­chi sareb­be­ro 350.000. Metà dei chil­dren left behind ha meno di 10 anni, men­tre più del­la metà ha tra i 2 e i 6 anni e il 4% ha meno di un anno. Le con­se­guen­ze del­la distan­za dal­la pro­pria madre sul­la vita di que­sti bam­bi­ni e ado­le­scen­ti sono mol­te­pli­ci, e inci­do­no – non solo – sul­la loro car­rie­ra sco­la­sti­ca (il 2% dei mino­ri con alme­no un geni­to­re all’estero ha abban­do­na­to la scuo­la) – ma anche – sul­la loro rela­zio­ne con la figu­ra mater­na. I figli di Danie­la non rie­sco­no a capi­re appie­no per­ché, una mat­ti­na di feb­bra­io, la madre li abbia abban­do­na­ti, e, in par­ti­co­la­re, la figlia mag­gio­re, Ange­li­ca, non per­do­na la madre per aver­le asse­gna­to – sen­za inter­pel­lar­la – la respon­sa­bi­li­tà di fare da madre a se stes­sa e al fra­tel­lo più pic­co­lo. Danie­la, però, insi­ste, più vol­te, sul fat­to che tut­te le sue azio­ni non sono sta­te gui­da­te dall’egoismo, ma sono sta­ti sacri­fi­ci fina­liz­za­ti a miglio­ra­re la loro con­di­zio­ne. Per­ché, “a vol­te si può fare solo così”: scap­pa­re dal pae­se-fan­ta­sma, in cui si è nati, per ritor­na­re – pri­ma o poi – e rico­strui­re ciò che si è lasciato. 

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