Securitario, iper-punitivo e tendente alla “pan-carcerizzazione”, disomogeneo e inutilmente vasto: si può dire di tutto sul decreto-legge n. 48 del 2025 (convertito nella legge n. 80 del 2025), cd. “decreto sicurezza”, e la relazione della Corte di Cassazione certamente lo fa, addentrandosi — con dovizia di dettagli giuridici e fonti qualificate — nei gangli delle nuove norme volute dal governo Meloni. Ma vi è un aspetto che inquieta più di tutti, passato in silenzio, quasi accettato da un’opposizione rassegnata e da un’opinione pubblica distratta: la sottrazione della proposta di legge originaria alla discussione parlamentare. Si tratta della più evidente manifestazione dell’ipertrofia del potere esecutivo, ormai soverchiante rispetto a un Parlamento ridotto a camera di ratifica delle norme scritte a Palazzo Chigi. Da ormai molti anni il ricorso alla decretazione d’urgenza è stato oggetto di critiche, specialmente dal Quirinale (sono innumerevoli i richiami del presidente Mattarella, caduti nel vuoto). Ma l’aver proposto attraverso un decreto il contenuto tal quale, con pochissime modificazioni, di una proposta di legge, equivale alla esautorazione delle aule rappresentative della volontà popolare.
Come rileva la Corte di Cassazione, è proprio la “disomogeneità dei contenuti” del decreto a manifestare il “vizio sintomatico” della mancanza dei presupposti di urgenza, rendendo il provvedimento un “insensato assemblaggio di temi”. Questa “prepotenza governativa” genera rischi “sotto il profilo dell’equilibrio tra i poteri poiché potrebbero essere disattesi alcuni limiti costituzionali alla decretazione d’urgenza”, affievolendo “il senso della riserva di legge [in materia penale, N.d.A.] quale strumento di garanzia del cittadino”.
La giurisprudenza costituzionale ha già stabilito che la “manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione” dei presupposti (Art. 77 Cost.) può portare all’incostituzionalità dell’intero decreto-legge e della legge di conversione. Le motivazioni nel preambolo del decreto sono state giudicate “generiche e tautologiche” e “apodittiche”.
A questa insensatezza si aggiunge il fatto che le nuove norme sono in aperta violazione dei principi legalità, proporzionalità e ragionevolezza laddove si fa sistematicamente “ricorso accentuato allo strumento” della pena, con l’inasprimento delle sanzioni esistenti e l’introduzione di nuove fattispecie di reato, una inutile “ipertrofia” che accentua il rischio di un arbitrio legislativo nella definizione delle pene stesse e delle condotte criminali. La Corte ha rilevato le critiche giunte da innumerevoli fonti rispetto alla deviazione dal “diritto penale del fatto” (che quindi punisce la condotta offensiva) verso un “diritto penale d’autore” (che punisce la persona per ciò che “è”), in particolare colpendo categorie di persone socialmente marginalizzate o che manifestano dissenso, una pericolosa deviazione del populismo penale che già largamente ispira il nostro dibattito pubblico. Per giunta, questo complesso di norme è entrato in vigore immediatamente, senza un’adeguata vacatio legis, fatto che ha reso “impervia l’attribuzione della colpevolezza” in termini di conoscibilità dei nuovi precetti penali.
Che fare ora? Quarantatre attivisti “No Kings, No Bezos” di Venezia sono stati sottoposti a stato di fermo dopo aver manifestato pacificamente in piazza San Marco. Può un magistrato procedere contro di essi, pur sapendo che le norme che criminalizzano la condotta sono state introdotte con un provvedimento apertamente incostituzionale?