[vc_row][vc_column][vc_column_text]Favorire il confronto e la rielaborazione, su questi terreni la Scuola gioca il suo ruolo più importante: portare ogni studente ad essere un cittadino libero e consapevole. Un sfida di altissima responsabilità, un processo non facile da attuare sul quale Possibile — attraverso la campagna #AllaBaselaScuola — si sta interrogando, perché siamo convinti che fornire semplicemente più mezzi o più informazioni non esaurisce il compito della Scuola. Riceviamo da parte di due docenti questa riflessione su studenti con DSA e pensiero critico, che pubblichiamo come stimolo a un dibattito da avviare.
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Caso 1. Una giovane maturanda, dopo un grave incidente in moto, sotto shock, durante il trasporto in autoambulanza, chiede con insistenza la borsa contenente il quaderno con le mappe concettuali.
Caso 2. Un altro allievo, in prossimità dell’Esame di Stato, presenta alla commissione d’esame un “malloppo” di mappe concettuali, dettagliatissime su tutte le materie, senza il quale non riuscirebbe ad affrontare alcuna prova.
Caso 3. Una mamma, a colloquio con una docente, si lamenta della scarsa attenzione del consiglio di classe nei confronti del figlio dislessico e alla domanda dell’insegnante: “Come studia a casa?” risponde: “ Mio figlio non fa niente”.
Sono tre fatti che ci hanno portato ad interrogarci su più fronti rispetto alla sfida educativa sollecitata ormai dal numero sempre più crescente di allievi con BES (Bisogni Educativi Speciali).
Non è nostra intenzione criticare lo spirito della legge in materia di disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) in ambito scolastico, nata per favorire l’inclusione scolastica, obiettivo fondamentale e sacrosanto in cui abbiamo sempre creduto. Certo è che la situazione sta diventando molto complessa e difficilmente gestibile a causa del numero sempre più cospicuo di certificazioni mediche che attestano le innumerevoli forme di questo disturbo.
Ma non è questa la sede per entrare nel merito di una discussione sull’eventuale “deriva medicalizzante” della scuola (a riguardo segnaliamo un’intervista a Vincenza Palmieri, presidente dell’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare, che denuncia i gravi danni procurati da questa legge che in pratica sancisce l’esistenza di una patologia, opponendosi alla filiera diagnostica e alla medicalizzazione dell’apprendimento e affermando che si diagnosticano disturbi che possono essere gestiti con una buona didattica”; è la stessa tesi di Daniele Novara, Non è colpa dei bambini. Perché la scuola sta rinunciando ad educare i nostri figli e come dobbiamo rimediare. Subito, BUR, Milano 2017).
Certo è che è sempre più complicato gestire queste difficoltà in modo efficace, sia dal punto di vista educativo che didattico. Ci siamo chieste: “Facciamo in modo che i nostri studenti diventino cittadini liberi?”. I primi due casi sembrano testimoniare il contrario: due giovani si rivelano “dipendenti” anche psicologicamente da “protesi di memoria” senza le quali non riescono ad affrontare una prova di vita significativa come l’esame di stato.
Chiariamo ulteriormente: nessuno sta demonizzando l’uso di mappe o schemi previsto dalla legge per gli allievi con BES. Ma come docenti teniamo a precisare che ci sono due tipologie di mappe concettuali (e corsi di formazione sull’inclusione, a cui abbiamo partecipato in questi anni, lo confermano): una mappa più ricca di informazioni su cui studiare e un’altra più essenziale, tipo “lista della spesa”, per le interrogazioni e le verifiche. Spesso questa distinzione non viene rispettata anche perché il più delle volte le mappe sono realizzate da Tutor e/o da software forniti da centri privati, a cui si rivolgono i ragazzi per lo studio pomeridiano.
Manfred Spitzer nel suo libro Demenza digitale (Corbaccio, 2013, p.187) mette bene in evidenza che “Appropriarsi di un vero sapere (…) avviene per mezzo di un confronto attivo, di un movimento mentale avanti e indietro, di una continua rielaborazione, messa in dubbio, analisi e sintesi dei contenuti “ in quanto “ la permanenza di un contenuto nel cervello dipende dalla profondità della rielaborazione”. Trasferire meccanicamente concetti da una frase del libro a una casella di testo, a nostro avviso, consente solo il trasporto di contenuti da uno strumento di immagazzinamento ad un altro, non favorendo la reale comprensione (e la memorizzazione) di quanto viene studiato. In secondo luogo, e non per ordine di importanza, ci teniamo a sottolineare che non tutte le famiglie sono in grado di sopportare economicamente i servizi offerti da enti e organizzazioni che lavorano sui DSA: constatiamo che si sta creando una significativa disparità tra chi si può “permettere” di avere disturbi dell’apprendimento e chi invece non è in grado. La scuola è pertanto ancora più chiamata ad essere responsabile e a creare uguali condizioni di apprendimento per questi giovani.
Le nostre scuole non potrebbero occuparsi direttamente dei loro studenti, fornendo strumenti per costruire, nel modo più consono alle loro esigenze, il proprio apprendimento? Magari lavorando intensamente e insieme sulle lacune pregresse, sulle mancanze? Certo questo comporterebbe fatica e sacrificio, decisivi nel percorso di maturazione di un individuo e assenti nella normativa attuale, finalizzata esclusivamente all’alleggerimento e spesso alla dispensa da certi compiti (ma anche assenti, spesso, dal vocabolario delle famiglie che dovrebbero collaborare con la scuola attraverso un “approccio costruttivo” e non una “difesa d’ufficio”, come scrive Maria Teresa Serafini nel testo su citato). Ma la libertà di pensiero, ci chiediamo, è qualcosa che si costruisce senza fatica?
Sápere aude diceva Kant: “Abbi il coraggio di usare la tua intelligenza”. Ma l’uso dell’intelligenza necessita di supporti esterni oppure si pratica a partire dalla consapevolezza delle proprie irrinunciabili e irriducibili specificità?
Chiara Cisero
Monica Schirru[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]