Se il nostro non è un Paese per Transgender

Adria­na, don­na tran­sgen­der bra­si­lia­na, ha per­so il lavo­ro ed ha visto sca­de­re il suo per­mes­so di sog­gior­no nono­stan­te fos­se da 17 anni in Ita­lia. Per que­sto è sta­ta inse­ri­ta, lo scor­so 24 gen­na­io, nel CIE di Brin­di­si. Sen­za alcun rispet­to del­la sua sto­ria per­so­na­le era sta­ta asse­gna­ta in una strut­tu­ra maschi­le espo­nen­do­la a discri­mi­na­zio­ni e minac­ce da par­te degli altri migran­ti. Qual­che gior­no fa, gra­zie al lavo­ro inces­san­te del­le asso­cia­zio­ni trans, Adria­na è sta­ta pri­ma tra­sfe­ri­ta in una cel­la di mas­si­ma sicu­rez­za per tute­lar­la dal­le minac­ce rice­vu­te ed ha infi­ne otte­nu­to un nuo­vo per­mes­so di sog­gior­no tem­po­ra­neo in atte­sa di poter pro­ce­de­re con le pra­ti­che di richie­sta di pro­te­zio­ne uma­ni­ta­ria.

La sto­ria di Adria­na sot­to­li­nea l’attenzione sem­pre mag­gio­re che dob­bia­mo por­re alle discri­mi­na­zio­ni inter­se­zio­na­li. Quel­la appe­na cita­ta è solo una del­le tan­te vicen­de di discri­mi­na­zio­ne e mar­gi­na­liz­za­zio­ne che vedo­no al cen­tro del­la dispu­ta la tran­ses­sua­li­tà, in un Pae­se e una socie­tà che non rie­sce a supe­ra­re il pre­giu­di­zio, l’ignoranza e la con­fu­sio­ne impe­ran­ti sul tema.

Anche lo sport non ne è immu­ne: Tif­fa­ny Perei­ra da Abreu, schiac­cia­tri­ce bra­si­lia­na arri­va­ta in Ita­lia in serie A2 di pal­la­vo­lo fem­mi­ni­le nel­la squa­dra del Pal­mi e che in pre­ce­den­za, pri­ma dell’operazione di rias­se­gna­zio­ne del gene­re avve­nu­ta nel 2014, gio­ca­va, all’estero, nel­le cate­go­rie maschi­li, è sta­ta al cen­tro di pole­mi­che e discus­sio­ni che si sono con­clu­se con la deci­sio­ne del­la Serie A di inter­rom­pe­re i tes­se­ra­men­ti del­le atle­te transgender.

La docu­men­ta­zio­ne di Tif­fa­ny era, ed è, del tut­to in rego­la, sia per la fede­ra­zio­ne inter­na­zio­na­le, sia per quel­la nazio­na­le. Difat­ti quel­lo dell’atleta non è un pro­ble­ma di buro­cra­zia, ma di ste­reo­ti­pi e pre­giu­di­zi, que­gli stes­si che costi­tui­sco­no il noc­cio­lo duro dei feno­me­ni di discri­mi­na­zio­ne che le per­so­ne tran­ses­sua­li si tro­va­no ad affron­ta­re quo­ti­dia­na­men­te. Alcu­ne socie­tà avver­sa­rie del Pal­mi han­no avan­za­to riser­ve sul fat­to che nel­la cate­go­ria fem­mi­ni­le gio­chi­no anche per­so­ne tran­sgen­der. Il cli­ma che si è crea­to intor­no al “caso Tif­fa­ny” ha por­ta­to alla deci­sio­ne, assur­da, di sospen­de­re per il momen­to il tes­se­ra­men­to di ogni atle­ta tran­ses­sua­le in atte­sa di una defi­ni­ti­va pre­sa di posi­zio­ne da par­te del­la Fede­ra­zio­ne Ita­lia­na di Pal­la­vo­lo. A soste­gno del­le atle­te tran­sgen­der si è sol­le­va­ta, oltre alle asso­cia­zio­ni LGBTQI, la voce di ASSIST — Asso­cia­zio­ne Nazio­na­le Atle­te, che ha mostra­to mol­ta pre­oc­cu­pa­zio­ne per una resi­sten­za innan­zi­tut­to cul­tu­ra­le basa­ta su una cono­scen­za a dir poco lacu­no­sa del­la que­stio­ne transessuale.

Nel­lo sport come nel­la vita quo­ti­dia­na, il cri­te­rio di valu­ta­zio­ne si spo­sta e met­te così sul­la bilan­cia la sto­ria per­so­na­le, tra­sfor­man­do la per­so­na in un caso can­cel­lan­do la sua iden­ti­tà e facen­do­la pas­sa­re solo come tran­ses­sua­le — “una tran­ses­sua­le”, al fem­mi­ni­le, quan­do si ha alme­no la sen­si­bi­li­tà di rispet­ta­re l’identità di gene­re. Si può esse­re una buo­na atle­ta o una buo­na lavo­ra­tri­ce, ma tut­to sem­bra pas­sa­re in secon­do pia­no in un Pae­se che anco­ra iden­ti­fi­ca le per­so­ne tran­sgen­der per il loro per­cor­so di vita più che per quel­lo che real­men­te sono. Per que­sto moti­vo ser­ve un’azione poli­ti­ca di con­tra­sto alle discri­mi­na­zio­ni inter­se­zio­na­li e per la pro­mo­zio­ne di una com­ple­ta inclu­sio­ne del­le per­so­ne tran­ses­sua­li nel nostro tes­su­to socia­le supe­ran­do ste­reo­ti­pi e pre­giu­di­zi anche attra­ver­so ade­gua­ti per­cor­si di for­ma­zio­ne sul tema.

Pos­si­bi­le ha in men­te un’Italia giu­sta dove ognu­no pos­sa esse­re libe­ro di auto­de­ter­mi­nar­si sen­za esse­re costret­to dal­le cate­ne del pre­giu­di­zio e del­la discri­mi­na­zio­ne. Per que­sto rite­nia­mo par­ti­co­lar­men­te urgen­te un prov­ve­di­men­to con­tro omo­fo­bia e tran­sfo­bia, ma anche spe­ci­fi­che nor­me capa­ci di inter­ve­ni­re sul­le que­stio­ni del­la comu­ni­tà tran­sgen­der. A par­ti­re dal supe­ra­men­to del­la pato­lo­giz­za­zio­ne del­la tran­ses­sua­li­tà guar­dan­do anche alle posi­ti­ve espe­rien­ze che si stan­no facen­do in altri pae­si euro­pei, per por­ta­re avan­ti la bat­ta­glia per una leg­ge più moder­na sul­la ras­se­gna­zio­ne del gene­re e sul dirit­to al nome (e all’identità di gene­re) all’interno dei docu­men­ti di riconoscimento.
In secon­do luo­go ser­ve una rifor­ma del mer­ca­to del lavo­ro che lo ren­da capa­ce di acco­glie­re ogni indi­vi­duo e ogni pro­fes­sio­na­li­tà sen­za giu­di­zi sul­la per­so­na e sul­la sto­ria per­so­na­le, che nul­la han­no a che vede­re con la capa­ci­tà pro­fes­sio­na­le, e che pos­sa favo­ri­re l’inse­ri­men­to lavo­ra­ti­vo di tut­te quel­le cate­go­rie che al momen­to sono ai mar­gi­ni, tra cui le don­ne e le per­so­ne transessuali.

 

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