[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1508247282943{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]38 milioni di persone in più che soffrono la fame. È questo il dato che ci viene restituito da questi giorni di discussione tra i potenti del G7 e la FAO. Un aumento che si pone in controtendenza rispetto a quanto rilevato nell’ultimo decennio, e che porta a 815 milioni il totale delle persone sottonutrite.
Di questi 815 milioni, scrive la FAO, 489 vivono in paesi in cui sono in corso conflitti, la cui incidenza sulla quota di persone denutrite aumenta se consideriamo solamente i bambini. La cattivissima notizia è che anche i conflitti sono in aumento e, tra questi, spiccano le guerre civili e le violenze all’interno del medesimo paese.
«Le violenze e i conflitti – prosegue la FAO — sono distribuiti in modo irregolare attraverso i continenti, concentrati in quattro regioni: il Vicino Oriente e il Nord Africa, l’Africa settentrionale subsahariana, l’America centrale e l’Europa orientale, in particolare l’Ucraina. Molti dei conflitti più prolungati hanno ora valicato le frontiere e sono diventati di natura regionale: nel Corno d’Africa, nella regione dei Grandi Laghi dell’Africa, tra Afghanistan, India e Pakistan e dal Camerun, dal Chad e dalla Nigeria settentrionale nel Sahel».
Una geografia che oramai conosciamo benissimo e che ci racconta di una sovrapposizione perfetta tra fame, conflitti, migrazioni e cambiamenti climatici.
«I problemi di insicurezza acuta e di malnutrizione tendono ad essere ingranditi, laddove i pericoli naturali come siccità e inondazioni si mescolano alle conseguenze dei conflitti». I cambiamenti climatici non minacciano solamente la sicurezza alimentare dei territori interessati, ma possono contribuire a un inasprimento degli scontri, prolungando crisi e fragilità. «In alcuni casi, la causa principale dei conflitti è la concorrenza per le risorse naturali»: le corse ai terreni e all’acqua «sono state identificate come un potenziale fattore scatenante, poiché la perdita di risorse terrestri e di sussistenza, il peggioramento delle condizioni di lavoro e il degrado ambientale influenzano negativamente e minacciano la vita delle famiglie e della comunità». La FAO stima che «negli ultimi 60 anni, il 40 per cento delle guerre civili è da mettere in relazione alle risorse naturali. A partire dal 2000, circa il 48 per cento dei conflitti civili si sono verificati in Africa, in contesti in cui l’accesso ai terreni rurali è essenziale per il sostentamento di molti e dove le questioni legate alla terra hanno svolto un ruolo significativo in 27 conflitti su 30». Ecco spiegata la relazione tra conflitti, aggravati o causati dai cambiamenti climatici, e «l’apparente rovesciamento della tendenza in diminuzione, a lungo termine, della fame nel mondo».
Ma non è finita qui. Il paradosso è che anche quando la produzione di materie prime agricole cresce, questa non si trasforma automaticamente in benefici per i contadini e le popolazioni locali ma, anzi, in costi per i paesi. Costa d’Avorio e Ghana coprono il 60% della produzione mondiale di cacao e, per entrambe, si annuncia un anno record. Il mercato mondiale del cacao vale circa 124 miliardi di dollari, eppure nelle tasche dei contadini ivoriani e ghanesi finiscono solamente 5,5 miliardi: il resto va a chi produce i semilavorati e, soprattutto, i prodotti finiti (87 miliardi), e cioè le grandi imprese multinazionali (con il corredo di elusione fiscale che spesso le contraddistingue). Il folle risultato è che i governi africani dovranno e devono sostenere costi per proteggere il reddito dei rispettivi contadini. Nel frattempo – perché oltre il danno c’è la beffa – il Ghana è beneficiario di un programma di aiuti del Fondo Monetario Internazionale per 920 milioni di dollari: di fatto risorse che si trasferiscono dalle tasche dei cittadini alle tasche delle multinazionali, passando per l’intermediazione delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali.
Un quadro che ci suggerisce, ancora una volta, che le questioni vanno affrontate tutte contemporaneamente: le migrazioni non possono essere gestite solamente definendo chi scappa dalla fame “migrante economico” («migration should be a choice, not a necessity», scrive sempre la FAO) e condannandolo a torture e morte in Libia. Allo stesso tempo non si può sconfiggere la fame e la povertà dimenticandosi delle nostre politiche commerciali e delle guerre. E non si possono ricomporre i conflitti dimenticandosi dei cambiamenti climatici. Gli stessi cambiamenti climatici che, grazie a una politica “fossile”, minacciano la nostra penisola, dalle coste alle Alpi.
Se non è un problema di produzione e disponibilità di cibo è, dunque, un problema di accesso e distribuzione delle risorse. La sottonutrizione esiste perché — da qualche altra parte all’interno dello stesso sistema – esistono le eccedenze e gli sprechi alimentari.
La Giornata Mondiale dell’Alimentazione dovrebbe ricordarci tutto ciò, e suggerirci quanto possiamo fare a partire da noi stessi e dalle politiche attuate dal nostro paese. Questi fenomeni, che possono sembrano troppo grandi da contrastare se osservati su larga scala, possono essere sconfitti su livelli geografici ridotti, scardinando fame e povertà un pezzetto alla volta.
Già in passato ci eravamo occupati di queste problematiche proponendo, oltre che misure per una transizione ecologica che veda protagonista le comunità locali, una normativa per l’istituzione dei frigoriferi solidali di quartiere e la promozione di sgravi fiscali per privati ed esercizi commerciali (ora limitata solo ai secondi e lasciata alla buona volontà dei comuni) che decidano di donare le proprie eccedenze ai più bisognosi, per offrire prospettive e nuove possibilità. Perché, come sancito nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il riconoscimento alla dignità specifica è diritto inalienabile di ogni essere umano.
Stefano Catone
Veronica Gianfaldoni[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]