Oggi vogliamo raccontarvi una storia. E scegliamo noi i protagonisti, coloro che avranno diritto di parola per l’intera narrazione, e scegliamo i ricercatori precari della vostra Università. Vi chiediamo uno sforzo di empatia e vedere lo svilupparsi di questa trama attraverso i loro occhi, i loro pensieri e le loro esperienze.
Bene, presentati i personaggi principali vediamo come evolve questa storia.
Immaginate di entrare, anche solo per una mezz’ora e anche se solo da interlocutori temporanei, all’interno di una sessione del CdA di una grande Università. Assistere, anche solo in parte, al funzionamento di uno degli ingranaggi principali della grande macchina Università. Ma badate bene, non immaginate di entrare in questa grande stanza in pompa magna, ma come umili e diligenti “lavoratori” della ricerca (precaria) che affollano i dipartimenti e i laboratori universitari. Siete voi, con la vostra maglietta rossa dove compare la scritta “Ricerca precaria”, insieme a vostri colleghi assegnisti, dottorandi e studenti.
Immaginate quindi di tentare di raggruppare tutto questo variegato mondo di anime, aventi esigenze diverse, ma tutte destinate ad un futuro comune di precariato e immaginate di essere riusciti a mobilitare questa eterogeneità (con enormi difficoltà). Questa vostra Università per fortuna continua ad avere sempre più studenti che ogni anno si immatricolano, perché questa vostra Università produce didattica e ricerca di qualità.
Ma dietro questi due termini, forse troppo abusati, si nascondono figure universitarie di qualità. Persone di alta qualità scientifica (ovviamente intendendo la scienza insenso ampio) producono didattica e ricerca di alta qualità. E questo vale nel paese del Bengodi che è L’Estero, questa terra magnifica dove tutto funziona, ma funziona anche qui in Italia.
Torniamo nella nostra Università dove i docenti continuano a calare, mentre i precari, i protagonisti della nostra storia, vicini alla scadenza e magari senza future borse/assegni annuali con i quali continuare il loro lavoro lasciano l’Università o decidono di prendere un biglietto per Bengodi.
Diamine, non possiamo restare senza docenti e senza ricercatori, e non possiamo continuare a formare studenti di alta qualità che diventeranno a loro volta i protagonisti di questa triste storia, e continuare così come un perfido e malvagio giorno della Marmotta.
Ma calma, non affrettiamo i tempi narrativi. Immaginate di essere riusciti a rendere visibile questa situazione di emergenza e di essere riusciti, sulla base di analisi fatte con i vostri colleghi, a proporre un piano di reclutamento che sul lungo periodo potrebbe rimettere in sesto questo sistema malandato. E ora, nel giorno in cui verrà decisa la sorte del prossimo e vicino futuro della vostra Università, cioè se sarà possibile continuare a garantire una buona didattica e una buon livello di ricerca, ecco che tutto cambia. Non venite considerati, né tantomeno le ragioni e i motivi per questa noncuranza sembrano essere solidi. E voi siete lì in piedi nel salone, preparati con numeri e grafici (come il vostro lavoro da ricercatore insegna) a sostenere la vostra tesi, i membri del CdA seduti attorno al tavolone rettangolare, qualcuno si alza per prepararsi un caffè
E tornate bambini quando i vostri genitori vi prendevano in braccio e guardandovi negli occhi vi dicevano:
“Ecco ti spiego io come funziona questo gioco”, magari con una bella pacchetta sulla spalla.
Ma voi non siete bambini, voi sapete perfettamente come funziona questo gioco, anzi lo conoscete fin nei suoi ingranaggi più nascosti. Quegli ingranaggi che studiano fino a tarda ora nelle aule studio perché hanno un esame importante, quei piccoli ingranaggi che una volta laureati non demordono e decidono di fare il Dottorato (forse parleremo anche di lui nelle prossime storie) fino ad arrivare a noi, ingranaggi a scadenza che meccanicamente ci muoviamo tra aule, uffici e laboratori. L’esperienza diretta è la nostra fonte di conoscenza, l’esperienza dell’Università adesso. Questo atteggiamento paternalista si insinua come una lama nei vostri petti, che siete ancora lì in piedi, fuori ormai è buio.
E voi continuate nonostante tutto e ribadite i concetti e le richieste che avete portato avanti coerentemente dall’inizio.
Ed ecco il colpo di scena, il twist nella trama, il deus ex machina. Qualcuno dei membri dice: “Io capisco che voi giovani siate impazienti ma.…”. Le parole successive si perdono nell’aria, perché solamente il termine “giovane” vi rimane in testa. Le vostre velocissime sinapsi creano un flusso di ricordi e nozioni legate a questo termine. Giovane, significante e significato: la percezione dell’essere giovane, in età anagrafica e la condizione di essere giovane, aldilà dell’età. E capite come questo termine qui sia un tremendo insulto, a voi, al vostro lavoro e alla parola stessa. Chi è questo fantomatico giovane impaziente? Forse, nell’immaginario comune di chi parla, dovrebbe essere colui/colei che vive senza grandi responsabilità (figli, mutuo per esempio) e incline alla filosofia “vivo giorno per giorno, tanto sono giovane”. E ritorna il paternalismo, il non essere riconosciuti adulti e consapevoli di come affrontare il mondo (in questo caso accademico), ma considerati giovani e inesperti e ancora in preda ad una sorta di innata vitalità e impazienza, tipica dell’età adolescenziale.
Allora ognuno dei nostri protagonisti pensa: “Quando il termine giovane è diventato tutto ciò? Quando è diventato un velo, scuro e pesante, sotto il quale nascondere una presunta superiorità e un deliberato tentativo di non accogliere istanze diverse dalle proprie? E quando è diventato un bieco pretesto per chiamare in ballo lo scontro generazionale? Se ho 40 anni e due figli e sono ricercatrice precaria da oltre dieci anni, ehm, sono giovane? Ma se si considera solo la mia produzione scientifica da ricercatrice senza alcun legame con la mia vita privata, con quali criteri vengo definita giovane?”.
La seduta si chiude, il futuro dei nostri protagonisti rimane offuscato e il loro morale è decisamente basso.
Ma non disperate lettori, questo non è che il primo capitolo di una narrazione molto lunga che continuerà in futuro.
Perché forse siamo stati tutti giovani un tempo, ma ora l’età della giovinezza sembra essere finita e vogliamo essere guardati come adulti.
Valentina Sarti Mantovani