Precaria è la vita: perché me ne andrò ancora dall’Italia

Ginevra Pazienza, pseudonimo di una giovane precaria, scrive a Possibile per raccontare la sua storia di precarietà e sfruttamento, e le ragioni per cui lascerà ancora il nostro paese.

L’au­tri­ce, “Gine­vra”, ci scri­ve chie­den­do­ci di man­te­ne­re l’a­no­ni­ma­to e spe­ci­fi­can­do: «la pre­ca­rie­tà è anche que­sto: ave­re pau­ra di rac­con­ta­re». In cal­ce, la rispo­sta di Giu­sep­pe Civati.

 

 

E’ il 26 dicem­bre, la mia fami­glia è riu­ni­ta a casa e si pre­pa­ra a salu­tar­mi: io sto tor­nan­do a Roma per­ché il mio capo ha impo­sto il rien­tro in uffi­cio men­tre lei è par­ti­ta, in vacan­za rigo­ro­sa­men­te 5 stel­le, alla vol­ta del Giappone.

E lo ha impo­sto anche a me, che sono in pro­va pra­ti­ca­men­te gra­tui­ta da meno di un mese. Anche a me a cui ha ridot­to il già mise­ro rim­bor­so spe­se con­cor­da­to in fase di col­lo­quio: ho fat­to i cal­co­li e que­sto mese di pro­va mi ver­rà (for­se) paga­to 26 euro al gior­no.

Dun­que anch’io devo tor­na­re, io che ho dovu­to accet­ta­re di lavo­ra­re altri quat­tro mesi con un com­pen­so di mil­le euro net­ti più rite­nu­ta d’ac­con­to, mil­le euro che mi sono sta­ti “con­ces­si ecce­zio­nal­men­te”. Io che poi a mag­gio dovrò apri­re la Par­ti­ta Iva, anche se mi è sta­to det­to (anzi mi è sta­to scrit­to) che l’o­ra­rio di uffi­cio è dal­le 9:30 alle 18 (la pau­sa pran­zo dipen­de dagli impe­gni) e che tut­ta­via è neces­sa­rio dimo­strar­si sem­pre fles­si­bi­li. E fles­si­bi­li­tà vuol dire arri­va­re pri­ma, usci­re più tar­di, anda­re in uffi­cio anche il sabato.

E tut­to que­sto per 26 euro al giorno.

Per que­sto ho salu­ta­to la mia fami­glia e sto tor­nan­do a Roma: per 26 euro al gior­no. E ora che sono sul­la stra­da del ritor­no, mi chie­do se que­sti sol­di val­ga­no tut­to ciò. Se ai tem­pi del­l’u­ni­ver­si­tà, duran­te le mie not­ti di stu­dio, mi aves­se­ro det­to che sarei anda­ta incon­tro a tut­to que­sto, non ci avrei mai cre­du­to. Tan­ti sacri­fi­ci e poi? E poi ti ritro­vi a ele­mo­si­na­re ciò che dovreb­be esse­re un dirit­to e che inve­ce, da mol­to tem­po, in que­sto pae­se si è tra­sfor­ma­to in un’op­por­tu­ni­tà che il dato­re di lavo­ro ti con­ce­de e per cui tu devi esser­gli gra­to. Sem­pre. Anche quan­do il sala­rio non è un sala­rio e le con­di­zio­ni in cui ti tro­vi a lavo­ra­re ti tol­go­no la dignità.

Ho deci­so di tor­na­re in Ita­lia e ho per­so la digni­tà, diven­tan­do una pre­ca­ria come tan­te, trop­po qua­li­fi­ca­ta e con un Cur­ri­cu­lum ano­ni­mo nel­la misu­ra in cui “non è paren­te o ami­co di…”. E’ figlio di nes­su­no il mio Cur­ri­cu­lum Vitae. Ma il gior­no in cui ho deci­so di tor­na­re a casa, non ho pen­sa­to a que­sto: ho sem­pli­ce­men­te pen­sa­to che non avrei più sen­ti­to la man­can­za del­la mia fami­glia, del­la mia ter­ra, del calo­re uma­no. In fon­do ave­vo in tasca una lau­rea otte­nu­ta in Ita­lia e una pres­so un’ot­ti­ma uni­ver­si­tà stra­nie­ra, un master, cor­si di lin­gue, sta­ge. Cosa pote­va atten­der­mi se non un futu­ro tut­to da costruire?

Sa quan­do ho capi­to che mi man­ca­va l’I­ta­lia? Il gior­no in cui ho avu­to un lut­to e sono rima­sta in una lavan­de­ria pub­bli­ca a pian­ge­re da sola men­tre le per­so­ne sedu­te accan­to mi guar­da­va­no stra­ni­te. Non sono potu­ta rien­tra­re quel­la vol­ta per con­di­vi­de­re il mio dolo­re con la mia fami­glia e in una lin­gua stra­nie­ra, per quan­to tu pos­sa par­lar­la, non lo puoi spie­ga­re dav­ve­ro com’è il dolo­re. Non ha lo stes­so suo­no, non ha lo stes­so peso. E anche il con­for­to non è ugua­le, ha un’e­spres­sio­ne diver­sa, un calo­re diver­so. Come lo spie­ghi il tuo dolo­re a uno stra­nie­ro che fa fati­ca per­fi­no a capi­re per­ché chiac­chie­ri con la signo­ra del­la caf­fet­te­ria dell’Università?

Que­sto è uno dei moti­vi per cui sono tor­na­ta. Ma dopo anni di sta­ge gra­tis e lavo­ri paga­ti due sol­di, mi ren­do con­to di dover di nuo­vo fare una scel­ta per­ché a esse­re pre­ca­rio non è solo il lavo­ro, ma tut­ta la vita. Per­fi­no i sen­ti­men­ti diven­ta­no pre­ca­ri: non ci sono pro­get­ti da costrui­re, non puoi per­met­ter­te­li e per­fi­no inna­mo­rar­ti diven­ta un lus­so quan­do sen­ti che non hai altra scel­ta che lascia­re di nuo­vo il tuo pae­se, insie­me a quel­l’a­mo­re che, dif­fi­cil­men­te, soprav­vi­vrà alla lontananza.

E’ così che tut­to diven­ta precario.

Pre­ca­rie­tà è anche que­sto. E’ sen­tir­si umi­lia­ta ogni gior­no, ogni vol­ta che sei costret­ta ad accet­ta­re lavo­ri che non cor­ri­spon­do­no ai tuoi tito­li di stu­dio, ogni vol­ta che devi subi­re in silen­zio tut­ti i sopru­si per­ché “il perio­do è brut­to e devi rin­gra­zia­re di ave­re alme­no que­sto. In fon­do meglio que­sto di nien­te”. Quan­te vol­te me lo sono sen­ti­ta ripe­te­re… E’ così che sia­mo pre­ci­pi­ta­ti in que­sta ras­se­gna­zio­ne alle ingiu­sti­zie e alle dise­gua­glian­ze: tut­to ciò è diven­ta­to la nor­ma­li­tà e in fon­do c’è sem­pre qual­co­sa di peg­gio, no?

Sta­se­ra arri­ve­rò a casa e sarò sen­za la mia fami­glia. Una soli­tu­di­ne che ha il valo­re di 26 euro al gior­no. Una soli­tu­di­ne per un lavo­ro sen­za alcu­na tute­la: nien­te malat­tia, nien­te ferie, nien­te con­tri­bu­ti. Nien­te di nien­te. La scor­sa set­ti­ma­na sono sta­ta costret­ta a rima­ne­re a casa per due gior­ni a cau­sa del­l’in­fluen­za e temo che doma­ni mi diran­no che i 26 euro al gior­no sono diven­ta­ti anco­ra meno.

Allo­ra a che ser­ve resta­re? La poli­ti­ca con­ti­nua a discu­te­re di cifre, ma ha smes­so da lun­go tem­po di occu­par­si di noi, di noi che abbia­mo inve­sti­to tan­to nel­la nostra for­ma­zio­ne per poi sen­tir­ci costan­te­men­te sot­to minac­cia per­ché per una qua­lun­que scioc­chez­za, “l’ac­cor­do potreb­be sal­ta­re “. Eh già, l’ac­cor­do di 1000 euro net­ti. Pro­prio quel­l’ac­cor­do. Quel­lo sen­za tute­le. Quel­lo che non mi per­met­te di amma­lar­mi, di pren­der­mi nes­sun gior­no di ferie, di rima­ne­re incin­ta. Sì, per­ché a 33 anni ti chie­do­no anche que­sto duran­te i col­lo­qui: se hai dei lega­mi sen­ti­men­ta­li per­ché non solo non c’è spa­zio per la vita pri­va­ta, ma soprat­tut­to non c’è spa­zio per chi ha inten­zio­ne di fare un figlio. La mater­ni­tà non è gra­di­ta ed è un pro­ble­ma, non un diritto.

Tut­to que­sto ha com­por­ta­to il mio rien­tro in Ita­lia. Que­sto è ciò che offre il pae­se in cui sono tor­na­ta e da cui sarò di nuo­vo costret­ta ad anda­re via…

Dovrò pren­de­re una vali­gia, infi­lar­ci i miei ricor­di, i miei affet­ti e quei pochi sogni che que­sto pae­se mi ha lascia­to e vola­re ver­so un pae­se che mi per­met­te­rà di costruir­mi una vita. Ma una vita vera, non pre­ca­ria. Una vita digni­to­sa, una vita in cui la mat­ti­na sarò feli­ce di anda­re in uffi­cio, una vita in cui non dovrò rin­gra­zia­re il mio capo per l’op­por­tu­ni­tà che gene­ro­sa­men­te mi offre, con­ce­den­do­mi per­fi­no una paga. Una vita che non mi farà sen­ti­re umi­lia­ta per le allu­sio­ni ses­si­ste che devi sop­por­ta­re per­ché se osi dire qual­co­sa, per­di anche quel poco che hai e di cui hai biso­gno. Una vita libe­ra per­ché quan­do i tuoi dirit­ti, come lavo­ra­tri­ce, come don­na, come esse­re uma­no, ven­go­no rispet­ta­ti e tute­la­ti, solo allo­ra puoi dire di esse­re dav­ve­ro libera.

E noi lavo­ra­to­ri di oggi, gio­va­ni e non, uomi­ni e don­ne di que­sto pae­se non pos­sia­mo più dir­ci libe­ri. Come si può esse­re libe­ro quan­do ti tro­vi costret­to ad accet­ta­re le con­di­zio­ni più inac­cet­ta­bi­li per poter soprav­vi­ve­re? Non per vive­re, ma per poter soprav­vi­ve­re. A cosa sono ser­vi­te le lot­te di colo­ro che ci han­no pre­ce­du­ti se le con­di­zio­ni in cui ci tro­via­mo a lavo­ra­re sono tor­na­te a esse­re quel­le del passato?

Sia­mo i nuo­vi schia­vi, come dice un libro bel­lis­si­mo che ho recen­te­men­te fini­to di leg­ge­re. Si ini­zia a esse­re schia­vi nel momen­to in cui non hai scel­ta, in cui la tua vita dipen­de dagli umo­ri del tuo dato­re di lavo­ro, in cui la pau­ra di per­de­re il lavo­ro ti spin­ge a tace­re di fron­te ai sopru­si, alle ingiu­sti­zie, alle umi­lia­zio­ni. E non ave­re un sala­rio ade­gua­to è un’u­mi­lia­zio­ne enor­me per­ché vuol dire non ave­re la pos­si­bi­li­tà di rea­liz­za­re te stes­so, come indi­vi­duo libe­ro e indipendente.

Oggi, pri­ma di par­ti­re, ho tro­va­to tra i libri di mio padre l’o­pe­ra di Pie­ro Cala­man­drei, di cui mi ha col­pi­to il “Discor­so ai gio­va­ni sul­la Costituzione”:

E’ com­pi­to del­la Repub­bli­ca rimuo­ve­re gli osta­co­li che impe­di­sco­no il pie­no svi­lup­po del­la per­so­na uma­na: quin­di dare lavo­ro a tut­ti, dare una giu­sta retri­bu­zio­ne a tut­ti, dare una scuo­la a tut­ti, dare a tut­ti gli uomi­ni digni­tà di uomo. Sol­tan­to quan­do que­sto sarà rag­giun­to, si potrà vera­men­te dire che la for­mu­la con­te­nu­ta nell’art. pri­mo- “L’Italia è una Repub­bli­ca demo­cra­ti­ca fon­da­ta sul lavo­ro“- cor­ri­spon­de­rà alla real­tà. Per­ché fino a che non c’è que­sta pos­si­bi­li­tà per ogni uomo di lavo­ra­re e di stu­dia­re e di trar­re con sicu­rez­za dal pro­prio lavo­ro i mez­zi per vive­re da uomo, non solo la nostra Repub­bli­ca non si potrà chia­ma­re fon­da­ta sul lavo­ro, ma non si potrà chia­ma­re nean­che democratica”.

Era il 1955. E chis­sà cosa pen­se­reb­be ora Cala­man­drei di que­sta nostra Repubblica

Lo por­te­rò in vali­gia con me que­sto libro quan­do lasce­rò di nuo­vo l’I­ta­lia. Lo por­te­rò per­ché mi pos­sa ricor­da­re, ogni vol­ta che mi man­che­rà, il moti­vo per cui ho lascia­to que­sto pae­se.

 

Gra­zie, Gine­vra, per la tua let­te­ra. Abbia­mo sem­pre biso­gno, soprat­tut­to in un momen­to in cui gli spro­lo­qui sul mon­do del lavo­ro si spre­ca­no — tra “non­cer­vel­li” in fuga e esplo­sio­ne dei vou­cher -, di sto­rie che rac­con­ti­no la real­tà vera, quel­la vis­su­ta da tan­ti, trop­pi gio­va­ni (e anche meno gio­va­ni) in que­sto paese. 

Non ci stan­che­re­mo mai di ascol­tar­le e, soprat­tut­to, non ci stan­che­re­mo mai di offri­re alla poli­ti­ca, nel­le nostre pos­si­bi­li­tà, alcu­ne alter­na­ti­ve che resti­tui­sca­no digni­tà al lavo­ro, e che sono pra­ti­ca­bi­li da doma­ni, se solo lo si voles­se. Intro­du­cen­do for­me spe­ri­men­ta­li di red­di­to mini­mo per ren­de­re il wel­fa­re dav­ve­ro uni­ver­sa­le, eli­mi­nan­do stor­tu­re al mer­ca­to del lavo­ro come quel­le deter­mi­na­te dai vou­cher, sem­pli­fi­can­do le tipo­lo­gie con­trat­tua­li nel­la dire­zio­ne di un con­trat­to a tute­le cre­scen­ti (lad­do­ve le tute­le sia­no rea­li, anche con­tro i licen­zia­men­ti discri­mi­na­to­ri camuf­fa­ti, e dav­ve­ro cre­scen­ti nel tem­po), inter­ve­nen­do su una que­stio­ne che trop­po spes­so vie­ne dimen­ti­ca­ta, ma che è anti­ca come le disu­gua­glian­ze, e cioè la robo­tiz­za­zio­ne del lavo­ro, che ingras­sa le mul­ti­na­zio­na­li (maga­ri le stes­se che non disprez­za­no meto­di elu­si­vi del fisco) e i loro mana­ger a sca­pi­to dei lavo­ra­to­ri. Per­ché l’uni­co modo per sal­va­re le per­so­ne, e il mon­do in cui vivo­no, è che un’o­ra del loro lavo­ro sia paga­ta dignitosamente.

Pos­sia­mo fare tut­te que­ste cose, ma solo se sare­mo in tan­ti, e organizzatissimi.

Giu­sep­pe Civati

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