Il sovranismo in Europa fa i conti coi costi che la Brexit presenta al Regno Unito

Con la nasci­ta del nuo­vo gover­nis­si­mo abbia­mo assi­sti­to a gira­vol­te e retro­mar­ce improv­vi­se un po’ su tut­to, ma quel­la che ha desta­to più cla­mo­re è cer­ta­men­te la repen­ti­na svol­ta a U del­la Lega sul­le isti­tu­zio­ni euro­pee, che non sono più un “covo di scia­cal­li” come dice­va il Sena­to­re sem­pli­ce che ha fat­to cade­re il Con­te I, omo­ni­mo di quel­lo che ha fat­to cade­re il Con­te II.

Quel­la che qual­cu­no insi­ste a defi­ni­re “svol­ta euro­pei­sta” altro non è che il nau­fra­gio sovra­ni­sta, col­pi­to dal­la pan­de­mia e dal­l’e­si­sten­za (de fac­to) di un Teso­ro euro­peo per la ripre­sa che è il con­tra­rio di quan­to avreb­be­ro volu­to i nazio­na­li­sti d’Eu­ro­pa. Non sono sta­ti rin­ne­ga­ti i decre­ti sicu­rez­za, men che meno le poli­ti­che sul­l’im­mi­gra­zio­ne di que­sti anni, o i rap­por­ti con l’e­stre­ma destra in Ita­lia e nel par­la­men­to euro­peo. La cri­si di gover­no ha pre­sta­to il fian­co a un cam­bio di linea, che si sta­va pre­pa­ran­do da quan­do l’I­ta­lia si è aggiu­di­ca­ta 209 miliar­di del Reco­ve­ry Fund (la fet­ta più gran­de), che mira ad aggiu­di­car­si quo­te del PNRR (lo stia­mo veden­do con le liste del­la spe­sa del­le regio­ni del nord nei loro PRRR).

Un altro gran­de col­po è venu­to dal Regno Uni­to dove ini­zia­no a cir­co­la­re i dati (mol­to più velo­ce­men­te del­le mer­ci) sui costi che l’u­sci­ta dal­l’U­nio­ne com­por­te­rà nel pros­si­mo biennio.

La Com­mis­sio­ne Euro­pea ha affer­ma­to che la fine del­l’a­de­sio­ne coste­rà al Regno Uni­to, entro il 2022, alme­no il 2,25% del Pil: più di quat­tro vol­te il costo che paghe­rà l’UE, lo 0,5% del Pil. L’ac­cor­do com­mer­cia­le del­l’un­di­ce­si­ma ora fir­ma­to in dicem­bre ha ridot­to i dan­ni. L’ac­cor­do di libe­ro scam­bio FTA ha miglio­ra­to la situa­zio­ne ma non è lon­ta­na­men­te para­go­na­bi­le ai van­tag­gi deri­van­ti dal­l’a­de­sio­ne all’UE, con una per­di­ta di oltre 40 miliar­di di sterline.

Stia­mo già assi­sten­do, in par­te, alle gran­di dif­fi­col­tà nel com­mer­cio tran­sfron­ta­lie­ro. Per faci­li­ta­re il pas­sag­gio mol­ti con­trol­li alle fron­tie­re sono sta­ti rin­via­ti a que­sta pri­ma­ve­ra, quan­do vedre­mo ulte­rio­ri bar­rie­re per il com­mer­cio. La libe­ra­liz­za­zio­ne del com­mer­cio di gene­ri ali­men­ta­ri e pro­dot­ti fre­schi sta para­dos­sal­men­te met­ten­do in ginoc­chio i pesca­to­ri, alle­va­to­ri e ven­di­to­ri ingle­si di pro­dot­ti loca­li che non rie­sco­no a far arri­va­re sui mer­ca­ti del­la gran­de distri­bu­zio­ne i loro pro­dot­ti in quan­to mes­si in con­cor­ren­za diret­ta con quel­li mol­to più eco­no­mi­ci del resto del mondo.

Il Finan­cial Times ha fat­to le pul­ci allo sta­to del­la Bre­xit a un mese dal­l’u­sci­ta: col­pi­ti oltre all’a­gri­col­tu­ra e alla pesca (John­son ha pro­mes­so 26 milio­ni di risto­ro) tut­ti i com­mer­ci da e per l’Eu­ro­pa. Il gior­no lavo­ra­ti­vo neces­sa­rio per tra­spor­ta­re la mer­ce ai clien­ti euro­pei pri­ma del­la Bre­xit non basta più, ora ne ser­vo­no due o tre. Que­sto dipen­de dal­la gran­de mole di docu­men­ti, ispe­zio­ni e pra­ti­che buro­cra­ti­che richie­sti (e per for­tu­na che, come det­to pri­ma, mol­ti con­trol­li sono sta­ti rin­via­ti per faci­li­ta­re la tran­si­zio­ne). Gli acqui­sti di mer­ce dal­l’U­nio­ne Euro­pea pre­ve­do­no inol­tre com­mis­sio­ni più alte, sfa­vo­ren­do i cit­ta­di­ni ingle­si che impor­ta­no buo­na par­te dei beni di con­su­mo da fuo­ri con­fi­ne. Altro gran­de pro­ble­ma quel­lo del­la situa­zio­ne ibri­da del con­fi­ne nor­dir­lan­de­se che, pro­prio a cau­sa del­le dif­fi­col­tà pri­ma descrit­te, si tro­va con gli scaf­fa­li dei super­mer­ca­ti vuo­ti (l’Ir­lan­da del Nord impor­ta qua­si tut­to dal­la Gran Bre­ta­gna e la mer­ce subi­sce gli stes­si con­trol­li del­la mer­ce in entra­ta nell’UE).

Que­sta incer­tez­za e que­sti aggra­vi buro­cra­ti­ci ren­do­no meno attrat­ti­vo il Regno Uni­to alle gran­di impre­se che voglio­no fare affa­ri nel mer­ca­to del­l’U­nio­ne e la cor­sa del­le impre­se stra­nie­re a spo­sta­re magaz­zi­ni in Euro­pa sta com­por­tan­do una rica­du­ta occu­pa­zio­na­le signi­fi­ca­ti­va anche per le pic­co­le e medie impre­se bri­tan­ni­che, non solo com’è ovvio per pro­ble­mi di rifor­nir­si di mate­rie prime.

Infi­ne c’è agi­ta­zio­ne anche nel mon­do del­la cul­tu­ra, già segna­to dal­la pan­de­mia, che deve affron­ta­re (al pari di ogni pro­fes­sio­ni­sta) il pro­ble­ma del rico­no­sci­men­to dei tito­li pro­fes­sio­na­li per lavo­ra­re in Europa.

Le cro­na­che di que­sto ini­zio di Bre­xit sono dav­ve­ro impie­to­se. Anche se da noi se ne par­la pochis­si­mo, stan­no spez­zan­do le ali dei soste­ni­to­ri nazio­na­li del­l’I­ta­le­xit: un ridi­men­sio­na­men­to note­vol­men­te per le ambi­zio­ni sovra­ni­ste e la nar­ra­zio­ne trion­fa­le dei van­tag­gi eco­no­mi­ci deri­van­ti da usci­te del­l’U­nio­ne. Che sia uno dei moti­vi che ha spin­to Sal­vi­ni a met­te­re la fel­pa con scrit­to ‘Bru­xel­les’?

 

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