Di fronte all’ennesimo efferato femminicidio, come quello commesso sulla giovane Juana Cecilia Hazana Loayza a Reggio Emilia, possiamo certamente dibattere sul modo più opportuno di eradicare la tossica cultura maschile del possesso che trasforma le relazioni sentimentali in prigioni, violenza e morte.
Possiamo scendere in piazza, tutte e tutti, anche noi maschi dovremmo e dobbiamo, scandendo slogan contro il patriarcato e tutto quel che comporta sulla vita delle donne, le nostre figlie, le nostre nipoti, prima oggetti, poi vittime.
Però, prima, a monte, mentre discutiamo quale sia il miglior approccio culturale e quali siano i mezzi pratici per attuarlo, c’è un problema più urgente, che è salvare la vita alle vittime designate, alle donne che denunziano.
La vicenda di Reggio Emilia è purtroppo esemplare.
Secondo la stampa, l’omicida era stato arrestato, dopo la denuncia della vittima per atti persecutori il 5 settembre.
Il successivo 6 settembre, dopo la convalida, era stato scarcerato e sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento, ma il 10 settembre era stato nuovamente arrestato per violazione del divieto di avvicinamento, violazione di domicilio e ulteriori atti vessatori, ottenendo il 23 settembre i domiciliari.
Solo fino al 4 novembre però, giorno in cui è decaduta la misura cautelare per la sopraggiunta sentenza di patteggiamento emessa dal tribunale di Reggio Emilia a 2 anni di reclusione con pena sospesa.
L’adesione a un programma di recupero ha fatto venir meno ogni misura di vigilanza.
Nell’esame della vicenda sicuramente va considerato il vissuto familiare dell’omicida, ma a maggior ragione va distinta la ricerca delle cause, che rileva sull’aspetto culturale di prevenzione futura per altre situazioni, da quella della responsabilità e soprattutto da quella della tutela.
Non importa, alla vittima, essere stata assassinata da una persona sana di mente o meno, o quali fossero i suoi problemi.
La priorità è difendere la vittima, difendere chi denuncia, anche e soprattutto quando lo Stato chiede espressamente alla vittima di denunciare per poter intervenire.
Juana Cecilia, denunciando, ha firmato la propria condanna a morte, perché lo Stato, cioè tutti noi, pur nel rispetto delle norme ed applicandole, non è stato in grado di tutelarla, di proteggerla, di salvarla.
La domanda, quindi, che ci si deve porre è se la normativa attuale consenta una tutela effettiva.
L’ultima riforma in materia, chiamata “Codice Rosso” ha introdotto nuovi reati, aumenti di pena, ha soprattutto velocizzato l’esame della notizia di reato da parte dei pubblici ministeri e quindi il procedimento penale.
E infatti, in questo caso, si è arrivati ad un patteggiamento su tutti i reati contestati a soli due mesi dalla prima denuncia.
Le misure di prevenzione ugualmente rafforzate dalla normativa, sono state prima applicate, poi violate, con la contestazione di nuovi reati, ed infine, dopo il patteggiamento, revocate per l’adesione ad un programma di recupero.
Ma razionalmente, si può ritenere possibile che un uomo, recidivo, che va a violare le misure di prevenzione appena disposte e si ritrova agli arresti domiciliari, in un mese possa essere cambiato al punto di non essere più un pericolo, solo per una adesione formale ad un programma?
Se è vero che non si può prevedere l’agire umano, a maggior ragione se deformato caratterialmente o patologicamente, è altrettanto vero che oggettivamente una normativa che consente la piena libertà dopo determinati reati contestati, a un recidivo, non tutela la vittima designata, quella su cui è stato disegnato un bersaglio.
Allora la normativa va modificata.
E non certo inasprendo le pene, perché lo stalker seriale, il violento, agisce su impulsi non sempre razionali, e non pensa certo a quel che rischia facendo quel che fa.
Vanno implementate le misure di tutela, in applicazione del divieto di avvicinamento, quindi, che deve permanere fino all’accertamento giudiziale del venir meno della pericolosità, ma non solo.
L’art. 282 ter codice penale recita che con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prescriva all’imputato anche di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa, e anche di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o da tali persone, vietando con loro ogni forma di comunicazione, anche “disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’art. 275 bis”.
Tali modalità sono quelle del cd. braccialetto elettronico, il noto dispositivo, che nel nostro ordinamento può essere applicato in sostituzione della misura cautelare in carcere con agli arresti domiciliari, ma con il consenso dell’imputato.
Però siamo pur sempre in Italia, ed il principale problema del braccialetto elettronico è che non ce ne sono abbastanza, ed infatti lo stesso art. 275 bis codice penale precisa che prima dell’adozione della misura debba essere accertata la materiale disponibilità in capo alla polizia giudiziaria dell’oggetto in questione.
Quindi le questioni sono due.
La prima è mantenere, come detto, il divieto di avvicinamento fino all’accertamento, giudiziale del venir meno della pericolosità, quindi non solo con l’adesione ad un programma, ma nel caso al termine dello stesso, con controlli continuativi e specifici dei servizi sociali, pena, in caso di violazione ai termini del programma, il venir meno del beneficio della sospensione della pena.
Perché la pericolosità prescinde dal reato e dalla pena, non viene meno con una sentenza di un processo, per quanto rapido (anzi, in questo caso la rapidità è paradossalmente parte del problema), con cui lo Stato punisce ma di fatto non tutela.
Secondo, prevedere l’obbligatorietà, fino all’accertamento giudiziale del venire meno della pericolosità, del braccialetto elettronico, sempre con le stesse conseguenze sulla sospensione della pena in caso di violazione.
Invece di invocare le denunce, lo Stato deve investire pesantemente in mezzi di protezione, i braccialetti elettronici per chi perseguita le ex compagne devono essere sempre disponibili ed essere acquistati e gestiti su un binario diverso da quello legato ai reati comuni.
Non è giustizialismo, anzi, è tutela, è prevenzione, è rispetto di un accordo fatto con chi denuncia a rischio della vita, perché, come detto, sulle pene non serve intervenire.
E se il braccialetto è considerato uno stigma sociale, allora diciamolo, sarebbe ora.
Sarebbe ora che chi perseguita la compagna venga stigmatizzato socialmente e non sempre giustificato, come purtroppo continua ad accadere anche mediaticamente, persino dopo averla assassinata.