Bonus o non bonus, questo è il dilemma

Il PD magnifica ancora la politica dei bonus, dall’immancabile bonus 80 euro, all’immarcescibile decontribuzione dei nuovi contratti, dal sempiterno reddito d’inclusione, al formidabile super-ammortamento di Industria 4.0

[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1496243133477{margin-top: 20px !important;}”][/vc_column_text][vc_column_text]Tradisce una cer­ta fra­gi­li­tà la dife­sa fuor di tastie­ra che Tom­ma­so Nan­ni­ci­ni fa del­la poli­ti­ca eco­no­mi­ca ren­zia­na, quel­la che l’economista chia­ma “mix di rifor­me strut­tu­ra­li e di leve con­giun­tu­ra­li”:

Da una par­te, rifor­me strut­tu­ra­li dise­gna­te per rilan­cia­re la cre­sci­ta poten­zia­le, gli inve­sti­men­ti e la pro­dut­ti­vi­tà nel lun­go perio­do. E dall’altra, leve con­giun­tu­ra­li per dare ossi­ge­no a fami­glie e impre­se nel bre­ve periodo.

Fra di esse, l’immancabile bonus 80 euro, l’immarcescibile decon­tri­bu­zio­ne dei nuo­vi con­trat­ti, il sem­pi­ter­no red­di­to d’inclusione, il for­mi­da­bi­le super-ammor­ta­men­to di Indu­stria 4.0.

Sia chia­ro, talu­ne poli­cy – come osser­va Nan­ni­ci­ni mede­si­mo – neces­si­ta­va­no di un diver­so taglio, di una diver­sa impo­sta­zio­ne: la nostra cri­ti­ca è sem­pre sta­ta orien­ta­ta, nel meri­to, a far emer­ge­re la distor­sio­ne pro­dot­ta dal­le nor­me sot­te­se; a far vede­re come la cat­ti­va pro­get­ta­zio­ne dell’incentivo gene­ras­se uno spre­co. Il resto lo ha fat­to la fret­ta del lea­der, l’abuso del­le paro­le e dei nume­ri. La volon­tà di appic­ci­ca­re, a qual­si­vo­glia segno posi­ti­vo negli indi­ca­to­ri macroe­co­no­mi­ci, una postic­cia rela­zio­ne di cau­sa-effet­to con le poli­ti­che intraprese.

Gli 80 euro, la man­cia elet­to­ra­le, dice Nan­ni­ci­ni, sono in real­tà «un taglio strut­tu­ra­le del­la pres­sio­ne fisca­le sui red­di­ti di fascia medio-bas­sa». Che però non modi­fi­ca­no affat­to la strut­tu­ra dell’imposta (quin­di non sono un taglio strut­tu­ra­le), non ten­go­no in debi­to con­to il quo­zien­te fami­lia­re, esclu­do­no inte­re cate­go­rie di lavo­ra­to­ri (inca­pien­ti, lavo­ra­to­ri auto­no­mi) e devo­no esse­re resti­tui­ti se si esce dal­la fascia di red­di­to pre­vi­sta. Infi­ne, se osser­va­ti su un gra­fi­co car­te­sia­no, appa­io­no più come un roz­zo col­po d’accetta dato ad occhi chiusi.

La decon­tri­bu­zio­ne? E’ una «misu­ra che ha dato i suoi frut­ti», affer­ma. «I cri­ti­ci del gover­no Ren­zi dovreb­be­ro met­ter­si d’accordo con loro stes­si: o il boom dei con­trat­ti sta­bi­li è tut­to meri­to del­la decon­tri­bu­zio­ne (come ripe­to­no sem­pre per smi­nui­re il Jobs Act) o quel boom non c’è sta­to pro­prio». E natu­ral­men­te l’economista di mar­ca ren­zia­na snoc­cio­la i nume­ri: dal gen­na­io 2015, vi sono sta­ti 499 mila lavo­ra­to­ri a tem­po inde­ter­mi­na­to in più (527 mila, dato aggior­na­to ad Apri­le 2017, con un incre­men­to del 3,6%).

Basta que­sto dato per sta­bi­li­re un nes­so cau­sa­le? L’uomo di scien­za si sareb­be posto il pro­ble­ma di come misu­ra­re gli effet­ti del­la decon­tri­bu­zio­ne. Che è sta­ta ero­ga­ta men­tre l’uscita dal mer­ca­to del lavo­ro per la coor­te ana­gra­fi­ca dei mag­gio­ri di cin­quan­ta­cin­que anni si restrin­ge­va per gli effet­ti del­la Leg­ge For­ne­ro (e ciò è testi­mo­nia­to dal­le sta­ti­sti­che sul­la com­po­si­zio­ne per clas­si di età del­la for­za lavo­ro ed è sta­to più vol­te dimo­stra­to da ana­li­si e stu­di, cfr. Ber­to­ni e Bru­nel­lo su lavoce.info ed altri).

Fra l’altro, nes­su­no ha nota­to come l’incidenza del­la cate­go­ria dei lavo­ra­to­ri ‘Per­ma­nen­ti’ sia cala­ta all’85,2% del tota­le dei dipen­den­ti (dato ISTAT – Serie Sto­ri­che Apri­le 2017 — era l’86.2% a Gen­na­io 2015): segno che la — ancor timi­da — espan­sio­ne del mer­ca­to sta assor­ben­do più lavo­ra­to­ri a ter­mi­ne (era­no 2,3 milio­ni nel Gen­na­io 2015 e sono diven­ta­ti 2,6 ad Apri­le 2017, il 12% in più).

Se inve­ce guar­das­si­mo al tas­so di disoc­cu­pa­zio­ne degli ulti­mi 21 mesi, osser­ve­re­mo una oscil­la­zio­ne intor­no alla media dell’11.6% la qua­le – esclu­den­do Apri­le, dato anco­ra prov­vi­so­rio – rien­tra nel cam­po di varia­bi­li­tà regi­stra­to nel mede­si­mo perio­do.

Det­to ciò, fac­cia­mo una doman­da: la decon­tri­bu­zio­ne è ser­vi­ta dav­ve­ro a far cre­sce­re l’occupazione? Soprat­tut­to: quan­to è costa­ta sino­ra? Quin­di­ci miliar­di? Venti?

Le cifre bal­la­no, come una gio­stra. Come i 47 miliar­di di inve­sti­men­ti, inscrit­ti nel­la Leg­ge di Bilan­cio 2017 al com­ma 140 che isti­tui­sce un fon­do la cui dota­zio­ne (1,9 miliar­di di euro per l’an­no 2017, 3,15 miliar­di per il 2018, 3,5 per l’an­no 2019 e tre miliar­di di euro per cia­scu­no degli anni dal 2020 al 2032) dovreb­be, stan­do alle pro­mes­se di Gen­ti­lo­ni, «assi­cu­ra­re lo svi­lup­po infra­strut­tu­ra­le del pae­se». Cer­to, dilui­ti in ven­ti­cin­que anni e sen­za una spe­ci­fi­ca pre­vi­sio­ne cir­ca la coper­tu­ra, sono ben poca cosa.

Le restan­ti misu­re cita­te da Nan­ni­ci­ni, a comin­cia­re dal red­di­to d’inclusione, sono altret­tan­to insuf­fi­cien­ti nel­la dota­zio­ne rispet­to alle fina­li­tà dichia­ra­te (ammet­te: «Chi dice che 1,8 miliar­di non basta­no ha ragio­ne»). E per i restan­ti bonus, il pro­ble­ma prin­ci­pa­le è quel­lo già cita­to per il prin­ci­pe dei bonus, quel­lo da 80 euro in busta paga: ovve­ro che sono igno­ran­ti, igno­ra­no cioè la con­di­zio­ne fami­lia­re di chi lo rice­ve. E che sono inin­fluen­ti rispet­to alla doman­da aggre­ga­ta. Citan­do anco­ra l’economista: «di nuo­vo, stia­mo par­lan­do di nean­che un miliar­do non di cin­quan­ta. Tut­to qui».

Tut­to qui.

Nes­sun com­men­to è mai sta­to così azzec­ca­to.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

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