Sulla morte di un ragazzo

La disoccupazione non è un fallimento personale, bisogna che sia chiaro a tutti i giovani che cercano lavoro e non lo trovano. A questi livelli il problema non è individuale ma riguarda la società intera.

Nei gior­ni scor­si nes­su­no dei quo­ti­dia­ni nazio­na­li ha dato noti­zia di una tra­ge­dia. A Cimal­do­mo, in pro­vin­cia di Tre­vi­so, abi­ta­va Gia­co­mo San­son, che gio­ve­dì 30 giu­gno ha deci­so di ucci­der­si. Ave­va 24 anni, si è impic­ca­to. Il gior­no pri­ma ave­va soste­nu­to l’ennesimo col­lo­quio di lavo­ro anda­to male. Sem­bra che sof­fris­se di depres­sio­ne pro­prio per la man­can­za di un’occupazione seria. Abi­ta­va con i suoi geni­to­ri e anda­va avan­ti con lavo­ri a chia­ma­ta, non riu­scen­do a tro­va­re nul­la di sta­bi­le che gli per­met­tes­se di usci­re di casa e costruir­si un futu­ro che, a que­sto pun­to, non riu­sci­va nem­me­no più a immaginare.

Ognu­no vive gli acca­di­men­ti del­la vita in modo uni­co. Però non pos­sia­mo nega­re che il sen­so di fru­stra­zio­ne, di ina­de­gua­tez­za, di smar­ri­men­to che deve aver pro­va­to Gia­co­mo sia lo stes­so che sen­ta ogni gio­va­ne sen­za lavo­ro. Per lui la suc­ces­sio­ne del­le delu­sio­ni, evi­den­te­men­te inso­ste­ni­bi­li, si è tra­sfor­ma­ta in una pro­fon­da, irri­me­dia­bi­le depres­sio­ne. Doman­dia­mo­ci: sap­pia­mo quan­ti ragaz­zi vivo­no que­sta tota­le per­di­ta di spe­ran­za? Quan­ti vivo­no la pro­pria situa­zio­ne di disoc­cu­pa­zio­ne come una colpa?

Il nodo sta pro­prio qui. La disoc­cu­pa­zio­ne non è un fal­li­men­to per­so­na­le, biso­gna che sia chia­ro a tut­ti i gio­va­ni che cer­ca­no lavo­ro e non lo tro­va­no. A que­sti livel­li (a giu­gno la per­cen­tua­le di inoc­cu­pa­ti era al 36,9% tra i 15 e i 24 anni) il pro­ble­ma non è indi­vi­dua­le, cau­sa del­le scel­te sba­glia­te di que­sta o quel­la per­so­na, ma riguar­da la socie­tà inte­ra. Coin­vol­ge inte­re gene­ra­zio­ni di uomi­ni e don­ne che non pos­so­no fare quel­lo che per i pro­pri padri, e quel­li venu­ti pri­ma di loro, era natu­ra­le: costruir­si un mestie­re, lavo­ra­re sodo, tro­va­re una com­pa­gna o un com­pa­gno di vita, edu­ca­re dei figli, pen­sa­re a una vec­chia­ia sere­na. In poche paro­le: vive­re con digni­tà.

La situa­zio­ne è dovu­ta dall’assenza com­ple­ta di una poli­ti­ca eco­no­mi­ca seria. Il Gover­no non solo non rie­sce a imma­gi­na­re la ben­ché mini­ma solu­zio­ne strut­tu­ra­le alla disoc­cu­pa­zio­ne, ma con­ti­nua imper­ter­ri­to sul­la stra­da di inter­ven­ti come il Jobs Act, il ricor­so ai vou­cher, le decli­na­zio­ni distor­te di pro­gram­mi euro­pei come Garan­zie Gio­va­ni: pro­fon­da­men­te ingiu­sti, ma anche e soprat­tut­to inef­fi­ca­ci. Ad aggra­va­re il qua­dro c’è quel pen­sie­ro laten­te, ma dif­fu­so, per cui un gio­va­ne rima­ne in fami­glia non per­ché costret­to, ma per­ché pigro; per cui un lau­rea­to è un ingra­to e un pre­sun­tuo­so se non accet­ta di fare il cas­sie­re o il bari­sta; per cui, se vuo­le fare espe­rien­za nel pro­prio cam­po, il mas­si­mo a cui aspi­ra­re è un tiro­ci­nio a 400–500 euro al mese o uno sta­ge gra­tui­to, che però “fa curriculum”.

Tut­ti devo­no sape­re che non è così. È giu­sto rifiu­tar­si di lavo­ra­re gra­tis, per­ché sem­pli­ce­men­te non è lavo­ro. Se non c’è retri­bu­zio­ne i casi sono due: o è volon­ta­ria­to o è schia­vi­tù. Tut­ti devo­no sape­re che lavo­ra­re gra­tis o accet­ta­re com­pro­mes­si al ribas­so signi­fi­ca non solo mor­ti­fi­ca­re le pro­prie aspi­ra­zio­ni, ma com­por­ta un dan­no per l’in­te­ra comu­ni­tà: il dato­re di lavo­ro che tro­va una per­so­na dispo­sta a svol­ge­re una man­sio­ne sen­za com­pen­so, non paghe­rà mai pro­fes­sio­ni­sti che lo fan­no in cam­bio di un giu­sto, legit­ti­mo corrispettivo.

I gio­va­ni devo­no sape­re che que­sto siste­ma mala­to non è col­pa loro e sape­re che pro­te­sta­re è pos­si­bi­le. C’è una cosa che la poli­ti­ca può fare subi­to, per libe­ra­re i ragaz­zi come Gia­co­mo dal tun­nel del­lo scon­for­to e dai ricat­ti di que­sto siste­ma mala­to: è il red­di­to mini­mo garan­ti­to. Nell’ultima dire­zio­ne Pd Mat­teo Ren­zi ha sot­to­li­nea­to di esse­re con­tra­rio a for­me di “assi­sten­zia­li­smo a piog­gia”, defi­ni­zio­ne così lon­ta­na dal­la sostan­za del red­di­to mini­mo da met­te­re i bri­vi­di. Garan­ti­re un red­di­to che per­met­ta di rag­giun­ge­re una soglia mini­ma per vive­re ai gio­va­ni sen­za lavo­ro o con un lavo­ro pre­ca­rio è, ad oggi, una sem­pli­ce for­ma di civil­tà. È l’unica manie­ra che per­met­te­reb­be loro di non accet­ta­re qual­sia­si, ma dav­ve­ro qual­sia­si situa­zio­ne pur di tira­re avan­ti e sen­tir­si “occu­pa­ti”, ribel­lan­do­si alle umi­lia­zio­ni. Sareb­be il pri­mo pas­so per inne­sca­re un siste­ma vir­tuo­so al rial­zo. Non pos­sia­mo saper­lo, ma for­se le cose sareb­be­ro anda­te diver­sa­men­te, se Gia­co­mo non si fos­se sen­ti­to com­ple­ta­men­te abbandonato.

Cate­ri­na Vignaduzzo

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