Quando Neil Postman pubblicò Amusing Ourselves to Death (Compiaciamoci fino alla morte) nel 1985, la sua tesi era tanto semplice quanto radicale: non è il contenuto a determinare la qualità del dibattito pubblico, ma il mezzo che lo veicola. Il modo in cui comunichiamo, scriveva, cambia ciò che siamo in grado di pensare e discutere. All’epoca con la televisione come “nuovo mezzo”a trasformare la politica in spettacolo fino ad oggi, con Donald Trump e i social media, quel processo sembra più che compiuto: la politica è intrattenimento puro.
Trump, di cui continuiamo a stupirci e a chiederci “perché”, ne è forse il più banale esempio, paradossalmente.
Dal giornale al tweet: il mezzo è il messaggio
Per capire perché questo modello ha avuto tanto successo, Postman ci invita a guardare indietro. Fino all’Ottocento, negli Stati Uniti il principale mezzo di comunicazione era la parola scritta: libri, giornali, opuscoli. La popolazione era in larga parte alfabetizzata (quasi 98% della popolazione) e aveva l’abitudine di leggere e collegare le informazioni. Non era raro assistere a dibattiti pubblici , come quelli celebri tra Lincoln e Douglas , che duravano piu di quattro ore, con lunghi monologhi e ragionamenti articolati. Non si trattava di intrattenere, ma di argomentare: chi ascoltava era in grado di seguire, analizzare, confutare e il politico non doveva ottenere il tifo da stadio, ma il vero assenso critico.
Con il telegrafo prima e la televisione poi, il tempo di attenzione si è contratto. In una società capitalista, ciò che si vende non è mai neutro: lo spettacolo diventa il fine, il contenuto un pretesto. La notizia non arrivava più come parte di una catena di cause ed effetti, ma come frammento isolato, un “flash” che si consumava in sé. Persino il ritmo dei telegiornali, quel “and now…” che introduce il servizio successivo, contribuisce a dare l’idea che ogni notizia sia un pacchetto isolato, slegato dal contesto, incapace di creare una continuità storica. Il cervello registra, archivia e passa oltre: informati, ma senza davvero comprendere. L’educazione stessa, nei programmi per bambini, si piegava a questa logica: più che formare menti critiche, occorreva mantenere alta l’attenzione, catturare con colori, suoni, immagini veloci.
Da qui alla politica lo scarto è breve. Se il cittadino è trattato come consumatore, e il dibattito politico come un prodotto televisivo, allora ciò che conta non è la coerenza di un programma ma la capacità di intrattenere. È in questo contesto che Trump, come introdotto, non appare come un’anomalia, bensì come il compimento logico di un lungo percorso. Le sue frasi contraddittorie, gli insulti in diretta, le provocazioni da circo non sono “scivoloni” o comportamenti da “outsider” ma parte integrante di un format: quello della politica come show. Trump quindi è il massimo splendore, o il punto più estremo, della politica-spettacolo repubblicana, costruita per scatenare emozioni e fidelizzare il pubblico-elettorato come fosse una tifoseria.
Trump non ha inventato nulla, ma ha colto meglio di chiunque altro lo spirito di questo ecosistema. Ha trasformato la campagna elettorale in reality show, la conferenza stampa in wrestling verbale, il tweet in un orrendo capslock come documento ufficiale di Stato, cosa impensabile in un paese europeo. Per i suoi sostenitori, non importa se le sue affermazioni resistano a un fact-check: importa la loro forza emotiva, la capacità di far arrabbiare l’avversario o di rafforzare l’identità della propria “squadra”.
In questo senso, Postman aveva visto giusto: quando la politica si piega alle regole dell’intrattenimento, il pensiero critico diventa un lusso, la democrazia si riduce a spettacolo.
E in Europa?
A guardarla dall’Europa, questa deriva sembra grottesca, un eccesso tutto americano. Eppure anche noi stiamo importando lo stesso modello, con qualche anno di ritardo. Dai talk show alla comunicazione social dei leader politici, il meccanismo è identico: polarizzazione, frasi a effetto, immagini virali che scatenano emozioni immediate e poco più. Le differenze sono “solo” due: negli Stati Uniti questa logica agisce da decenni, in Italia e in Europa da molto meno. Inoltre, In Italia ed Europa il peso della scuola, della tradizione letteraria e di una cultura politica più stratificata hanno lasciato ancora tracce di profondità. Nonostante l’analfabetismo funzionale crescente, l’educazione alla lettura e all’argomentazione ha conservato uno spazio. Non a caso, almeno da parte maggioritaria della sinistra, il dibattito resta più strutturato, più legato al contenuto che alla performance.
C’è però un elemento nuovo rispetto all’epoca di Postman: i social network. Essi rappresentano allo stesso tempo il problema e la possibile soluzione. Da un lato amplificano la logica dell’infotainment: un tweet o un reel valgono più di un ragionamento complesso, e il meccanismo della viralità favorisce contenuti che generano emozione più che conoscenza. Dall’altro lato, i social possono essere usati anche per il debunking, per spezzare il ciclo dell’emotività e offrire strumenti critici. Sta qui la sfida: trasformare lo stesso mezzo che alimenta la superficialità in un veicolo di consapevolezza.
Un esempio recente di come la politica-spettacolo emotiva repubblicana (“trumpiana”) statunitense si sia infiltrata e adattata perfettamente alla comunicazione politica, di destra in Italia nel particolare, arriva dalla narrazione sulla morte di Charlie Kirk sfruttata come miccia emotiva per generare indignazione e mobilitare il pubblico, indipendentemente dalla verità dei fatti. In questo caso, l’onda mediatica costruita attorno alla vicenda ha fatto leva sulle emozioni immediate degli spettatori, trasformando un evento complesso in un pretesto per uno storytelling politico spettacolare. Paradossalmente, lo stesso mezzo, i social, usati dalla stessa vittima per portare messaggi estremi, divisivi e di “intrattenimento”, potrebbe essere usato anche per il debunking rapido e per restituire al pubblico un quadro più chiaro, insegnando a leggere le notizie con senso critico e a non fermarsi alla reazione emotiva iniziale.
Politica o intrattenimento? Una scelta cruciale
Se lasciamo che l’emotività prevalga sulla razionalità, se non creiamo spazi di confronto e approfondimento, finiremo per importare in blocco il modello americano, con le sue contraddizioni e i suoi rischi.
Il futuro non è scritto, diceva Postman. Ed è vero anche oggi: dipende da come useremo i mezzi di comunicazione, se come strumenti di intrattenimento o come occasioni di pensiero. La differenza non è secondaria. Da essa dipende la qualità della nostra democrazia.
Karin Silvi
Possibile Reggio Emilia