I rifugiati ambientali, in America, nel 1936

La categoria dei "rifugiati ambientali" genera l'ironia di molti, eppure ne parlava John Steinbeck già ottant'anni fa, riferendosi alle persone che, a causa delle tempeste di sabbia, avevano dovuto abbandonare i campi degli Stati centrali per recarsi in California.

La cosa miglio­re del Nata­le cre­do sia che mi rega­la­no libri (e che rie­sco addi­rit­tu­ra a tro­va­re il tem­po per leg­ger­li). La miglio­re let­tu­ra di que­sti gior­ni è sen­za dub­bio I noma­di, di John Stein­beck, il cui tito­lo ori­gi­na­le è The Har­ve­st Gip­sy, e che non è un roman­zo, ma una rac­col­ta di arti­co­li pub­bli­ca­ti sul San Fran­ci­sco News nel 1936, com­mis­sio­na­ti dal gior­na­le diret­ta­men­te a Stein­beck — redu­ce dal suc­ces­so di Pian del­la Tor­til­la - con il fine di indadbmapfinalgare la con­di­zio­ne del­le per­so­ne che, in que­gli anni, scap­pa­va­no dal Mid­we­st col­pi­to dal­la dust bowl (tem­pe­ste di pol­ve­re) che ave­va ina­ri­di­to e resi inser­vi­bi­li i cam­pi che esse stes­se ave­va­no col­ti­va­to fino a pochi mesi pri­ma. Ora si river­sa­va­no nel­le val­la­te cali­for­nia­ne, ed è lì, tra accam­pa­men­ti abu­si­vi e accam­pa­men­ti gover­na­ti­vi — una distin­zio­ne che ricor­re tut­to­ra, ad esem­pio lun­go la rot­ta bal­ca­ni­ca — che Stein­beck svol­ge la pro­pria indagine.

E’ nel 1935 che l’on­da­ta migra­to­ria si pre­sen­ta con for­za: in tre anni saran­no tra i 300mila e i 500mila gli okies (ter­mi­ne adot­ta­to dal grup­po cul­tu­ral­men­te domi­nan­te per iden­ti­fi­ca­re in manie­ra dispre­gia­ti­va i migran­ti pro­ve­nien­ti dal­l’O­kla­ho­ma) che a cau­sa del­la sic­ci­tà arri­ve­ran­no in Cali­for­nia, e che saran­no descrit­ti sia a paro­le (Stein­beck mos­se da I noma­di per giun­ge­re alla ste­su­ra di uno dei suoi più noti capo­la­vo­ri, Furo­re, 1939) che gra­zie ai repor­ta­ge foto­gra­fi­ci di Doro­thea Lan­ge.

Dorothea Lange, Migrant Mother, 1936
Doro­thea Lan­ge, Migrant Mother, 1936

La let­tu­ra degli arti­co­li con­te­nu­ti in I noma­di, così come le foto di Lan­ge, sem­bra­no rac­con­ta­re l’Eu­ro­pa ai suoi con­fi­ni, esat­ta­men­te ottan­ta anni dopo, e cioè oggi. «In que­sta sta­gio­ne del­l’an­no — apre così la ras­se­gna -, quan­do nel­le vaste col­ti­va­zio­ni del­la Cali­for­nia arri­va il momen­to del rac­col­to — grap­po­li d’u­va rigon­fi, pru­gne, mele e lat­tu­ga e il coto­ne che matu­ra in fret­ta — le nostre stra­de pul­lu­la­no di lavo­ra­to­ri migran­ti, un grup­po di rac­co­gli­to­ri noma­di, col­pi­ti dal­la pover­tà e spin­ti dal­la fame e dal­lo spet­tro del­la fame a vaga­re di cam­po in cam­po, di rac­col­to in rac­col­to, su e giù per lo sta­to. […] Ci sono alme­no 150.000 migran­ti sen­za­tet­to che per­cor­ro­no lo sta­to in lun­go e in lar­go». E cos’al­tro sono se non i migran­ti sfrut­ta­ti dai capo­ra­li per rac­co­glie­re gli stes­si ortag­gi e che vivo­no nel­le barac­co­po­li che ogni esta­te ci rac­con­ta? Pri­vi di iden­ti­tà, sen­za un tet­to, costret­ti a vaga­re in cer­ca di una dimo­ra. Di loro fan­no par­te i dinie­ga­ti, colo­ro cui non è sta­to con­ces­so asi­lo e che non pos­so­no cer­ca­re lavo­ro rego­lar­men­te, a cau­sa del fol­le avvi­ta­men­to tra poli­ti­che migra­to­ri e poli­ti­che del­l’a­si­lo. «Di soli­to, quan­do nel cor­so del­la sta­gio­ne il pic­co­lo agri­col­to­re ha biso­gno di un afflus­so di lavo­ra­to­ri migran­ti, il reclu­ta nei cam­pi abusivi».

Si trat­ta di un «fiu­me di rifu­gia­ti del­la Dust Bowl». Stein­beck scri­ve pro­prio così: “refu­gees”, rifu­gia­ti. Li chia­me­rem­mo ora “rifu­gia­ti ambien­ta­li”, che scap­pa­no da cala­mi­tà natu­ra­li, da un ambien­te che è diven­ta­to ina­dat­to per garan­ti­re una vita digni­to­sa: uomi­ni che «si sono spin­ti fino al Mid­we­st, che si sono con­qui­sta­ti la ter­ra lot­tan­do, che han­no col­ti­va­to le pra­te­rie e sono rima­sti fin­ché que­ste non sono sta­te riman­gia­te dal deser­to. E, visto il loro pas­sa­to e le loro espe­rien­ze, non sono migran­ti di natu­ra. Sono noma­di per cau­se di for­za mag­gio­re». Qual­cu­no lo scri­ve­va ottan­ta anni fa, altri, oggi, ci fan­no una bas­sis­si­ma iro­nia.

Da IlGiornale.it.
Da IlGiornale.it.

Le con­di­zio­ni di vita sono disu­ma­ne: con­di­zio­ni igie­ni­che e sani­ta­rie pre­ca­rie, fami­glie ammas­sa­te, vio­len­ze gra­tui­te da par­te dei vigi­lan­tes, neo­na­ti che muo­io­no, don­ne che muo­io­no, uomi­ni che piom­ba­no nel vor­ti­ce del­la dispe­ra­zio­ne e ven­do­no tut­to ciò che pos­sie­do­no, fino a per­de­re se stes­si. «Un uomo ammas­sa­to in un greg­ge — scri­ve Stein­beck -, cir­con­da­to da guar­die arma­te, affa­ma­to e costret­to a vive­re nel­la spor­ci­zia per­de la pro­pria digni­tà: per il suo ruo­lo vir­tuo­so all’in­ter­no del­la socie­tà, e di con­se­guen­za per­de inte­ra­men­te la sua eti­ca socia­le. […] Con­si­de­ria­mo allo­ra que­sto annien­ta­men­to del­la digni­tà come una del­le con­se­guen­ze più deplo­re­vo­li del­la vita del migran­te, per­ché ne inde­bo­li­sce il sen­so di respon­sa­bi­li­tà e lo tra­sfor­ma in un reiet­to incat­ti­vi­to che col­pi­rà il gover­no in tut­ti i modi che gli ven­go­no in men­te». Ma così non è nei cam­pi dove le per­so­ne sono sta­te inco­rag­gia­te a gestir­si auto­no­ma­men­te e in manie­ra col­let­ti­va, avvian­do pro­ces­si di col­la­bo­ra­zio­ne a som­ma posi­ti­va, un suc­ces­so che «fa sem­bra­re un po’ stu­pi­da la con­sue­tu­di­ne di spen­de­re dena­ro per i gas lacri­mo­ge­ni. La mag­gior par­te dei nuo­vi migran­ti del­la dust bowl diven­te­ran­no defi­ni­ti­va­men­te cit­ta­di­ni cali­for­nia­ni».

Que­stio­ni che ven­go­no poste da sem­pre, e che abbia­mo volu­to affron­ta­re a viso aper­to nei mesi scor­si e che affron­te­re­mo anco­ra nei mesi che ver­ran­no, facen­do­ci accom­pa­gna­re da Nes­sun Pae­se è un’i­so­la. Que­stio­ni che ci richia­ma­no al più anti­co e, allo stes­so tem­po, più moder­no dei prin­ci­pi, secon­do il qua­le il lavo­ro va paga­to e la retri­bu­zio­ne deve esse­re equa («pro­por­zio­na­ta alla quan­ti­tà e qua­li­tà del lavo­ro e in ogni caso suf­fi­cien­te ad assi­cu­ra­re a sé e alla fami­glia un’e­si­sten­za libe­ra e digni­to­sa», dice la Costi­tu­zio­ne). Al di là del colo­re del­la pel­le, del­la pro­ve­nien­za, del­la sor­te che ti ha por­ta­to a farlo.

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